Quando si parla di capitalismo mondializzato si pensa in genere a un pianeta dominato da un pugno di miliardari. I quali però da soli non sarebbero in grado di tenere in mano le leve del potere. Di pari passo con la globalizzazione sta emergendo una nuova borghesia stipendiata, le cui ambizioni minacciano i ceti medi nazionali. Ma questa nuova classe potrà assicurare la sopravvivenza del sistema senza nutrirsi della cultura politica e civica delle borghesie tradizionali?
Secondo il filosofo Clément Rosset, la vita non ha altro senso che quello dell'allegria del reale che si contrappone al nulla. (1). Ma noi umani, mal sopportando la gioia spinoziana, ci affrettiamo a fabbricare un senso per tutti: come quello dell'alto e del basso. La storia come finzione sembra essere una lotta per inventare quest'altezza da cui sovrastare gli altri come se fossero in basso, obbligandoli a crederci quando sono restii.
La creazione dell'universo liberale non sfugge a questa formula, e consente all'autoproclamata élite di sorvolare l'oceano dei non graduati. Non si potrebbero comprendere le evoluzioni economiche senza considerare che esse partecipano allo stesso gioco delle potenze comparate. Oggi però la potenza non si misura più sui parametri dello stato nazione, bensì su quello delle multinazionali. Una nuova griglia ricostruisce la posta simbolica, politica e sociale in gioco, nascosta dietro l'astratto flusso del denaro. Emerge allora una nuova classe dirigente di estensione universale, che è venuto il momento di analizzare (2).
Il gioco infantile che consiste nel riconoscere al proprio fratello un oggetto del desiderio soltanto per poterglielo sottrarre condanna i dominanti a una solitudine assediata dall'odio. Per sopravvivere, l'élite deve dunque organizzarsi in classe. Nella circolazione dei valori, ogni tornata fa fallire schiere di proprietari di titoli, mentre si estende sempre più la fascia dei lavoratori impoveriti e dei disoccupati. Come ricorda Jean-Claude Milner in un libro graffiante (3), se non mantenesse il proprio peso numerico grazie a redditi salariali sottratti dalla lotta politica al meccanismo infernale del plusvalore, la borghesia scomparirebbe nel giro di pochi decenni. A maggior ragione con la globalizzazione: nel libero gioco del mercato planetario, il capitalismo farebbe prestissimo ad autofagocitarsi. Perciò deve remunerare una vasta classe dirigente mondiale, ben più numerosa del ristretto gruppo di poche migliaia di miliardari censiti dalla rivista Forbes. Se non lo facesse, e si accontentasse di una crescita dei propri beni dell'1% l'anno, in un mondo in cui alla crescita corrisponde l'impoverimento, prima della fine del prossimo secolo un pugno di famiglie straricche avrebbe il dominio assoluto delle sorti dell'umanità.
Il rovescio della potenza
Questa potenza avrà però il suo rovescio: quando il 90% delle persone dipenderanno dagli stessi, noti padroni, questi ultimi vivranno nella paura di una rivolta fatale. Da qui l'importanza vitale, per il capitalismo mondiale, della crescita di un'iperborghesia numericamente proporzionale alla sua nuova potenza, che entri in rapporti di civiltà con le altre componenti del "suo" mondo. Ma senza uno stato regolatore commisurato ad essa, senza criteri negoziati di formazione dell'élite mondiale, come produrre la borghesia in quanto classe? Come porla in relazione con i ceti medi? Essa può accrescere il proprio potere soltanto distaccandosi dagli altri, ignorando lo sguardo altrui (lo si può notare dall'impossibilità di far finanziare studi sulla borghesia mondiale). Poiché si considera "al disopra" del resto del mondo, chiameremo iperborghesia la classe dirigente che sta emergendo, distinta però dai megapatrimoni e dalle aristocrazie del denaro, già da tempo internazionali, di cui costituisce il prolungamento funzionale, l'esercito dei "collaboratori immediati". L'iperborghesia si avvicina all'overclass del politologo Michael Lind (4), ma la sua realtà è ben lontana dall'idea di "iperclasse" futurista e romantica ripresa da Jacques Attali (5).
L'iperborghesia coniuga alle posizioni di potenza alcuni segni di coesione culturale. Le prime le derivano dai posti che occupano all'interno dei gruppi finanziari, di consulenza o nelle industrie giuridiche; in altri termini, nelle sale di comando dei flussi monetari e delle decisioni d'autorità. Si può scendere fino al management strategico della produzione, ma dato che i grandi patrimoni (e le loro teste pensanti, i self made men miliardari) (6) hanno lasciato l'industria per la finanza, l'informatica, i media, la distribuzione, gli articoli di lusso o il turismo, l'iperclasse si è sviluppata allontanandosi dal mondo dell'ingegneria.
Più ancora della classe alta anglo-americana della quale ha raccolto l'eredità, l'iperborghesia mondiale è spartizione di posti chiave, di influenza e decisione rapida, come quelli che hanno consentito l'intervento chirurgico concertato sulle monete asiatiche, traendone oltre tutto profitto per gli investimenti occidentali nella zona di pericolo. La rovina, effettiva ma circoscritta, di centinaia di milioni di abitanti, indica a quale livello si pone l'attività decisionale dell'iperborghesia - politicamente efficace più che finanziaria. Per quanto riguarda lo stile di vita, inizialmente l'iperborghesia ha assunto a modello la classe danarosa americana e internazionale. Quest'ultima, di preferenza residente nelle metropoli, ha operato una prima fusione tra rendita e inquadramento gestionale, simboleggiata tra l'altro dalla notevole componente di azioni nei megastipendi dei suoi membri. Mentre la classe alta americana è prevalentemente protestante o ebrea più che cattolica, vicina all'episcopalismo piuttosto che metodista o battista, l'iperborghesia mondiale ammette le più diverse commistioni. Ma anche se proviene dall'Asia o dall'America latina, l'adesione all'individualismo puritano trova migliore accoglienza (come testimonia l'immenso successo del pentecostalismo).
Il modello americano resta un esempio per ogni iperborghesia. Vi si distingue nettamente il tipo "internazionale costiero", laureato in una delle più quotate università private degli Stati Uniti, dall'accento stretto, dedito ai vini francesi e ai formaggi d'importazione, che legge Harper's Magazine, segue MacNeil o Lehrer sulla Cbs (se ha ancora la tv), gioca a squash e passa ogni anno due mesi in Europa. Ben diverso il tipo "continentale locale", diplomato in qualche piccola università di stato, dalla pronuncia strascicata, che innaffia di birra i suoi pancakes al burro d'arachide, gioca a bowling, guarda la rete via cavo "Nashville" e trascorre brevi fine settimana a Disneyland o a Las Vegas.
Dovunque si siano costituite élites internazionali, sia che abbiano tratto origine da membri riconvertiti della nomenklatura, come in Russia (7), o da una tradizione di corporazioni che il partito comunista non ha mai distrutto, come in Cina, un'iperborghesia ha sempre avuto modo di configurare la propria genesi. E anche qui, come nelle Americhe, questi diversi germogli non nascono da attività imprenditoriali, ma da incarichi stipendiati. Come la borghesia nazionale che l'ha preceduta, l'iperborghesia lascia la maggior parte del rischio imprenditoriale alla piccola rendita dei pensionati, che preferisce gestire a partire da posizioni indipendenti dagli incerti del mercato; e lo fa tanto più efficacemente in quanto in molti casi questi incerti sono sotto il suo controllo.
Gli "iperclassisti" integrano i loro stipendi grazie alle commissioni, ma il loro status è garantito soprattutto nelle burocrazie private. Negli Stati Uniti, è il rango di chief executive officer ad assicurare una remunerazione cento volte superiore al salario operaio di base. L'iperborghesia è dunque, non diversamente dalla vecchia classe dei dirigenti remunerati ma a un grado assai superiore, un'organizzazione politica del reddito permanente; e lo stabilizza anche più efficacemente grazie all'intermediazione delle corporazioni professionali, che funzionano come agenzie di collocamento e leve di potere dirette (un esempio è la famosa American Bar Association). L'iperborghesia non si giustappone alle borghesie nazionali o regionali, le sostituisce.
La strategia del cuculo
Jean Claude Milner sostiene l'ipotesi che il capitalismo possa ormai fare a meno della borghesia, e che gli "ipersalari" in tempo o denaro (messi in conto al capitale per intrattenere un vasto ceto medio) tenderanno a ridursi, per destinare ricchezze sempre maggiori al plusvalore. In parte ha ragione, purché non si ometta di vedere che il bisogno di borghesia, politico e simbolico, del capitalismo, non si smentisce con il passaggio al livello mondiale. La riduzione drastica dei megastipendi è reale, ma riguarda solo le frazioni della borghesia un tempo legate al mecenatismo di stato o alle industrie con basi nazionali, la cui importanza strategica è diminuita. Ma perché l'iperborghesia soppianta le vecchie borghesie stabilizzate, anziché accontentarsi di aggiungersi a esse a un livello superiore? Per tre ragioni interconnesse. In primo luogo la borghesia, che i capitalisti hanno istituito per motivi politici, dipende dalla loro logica. Non si può dire: "Costituiamo i capitani d'industria in classe dirigente" e affermare nello stesso tempo che "i padroni sono gli agenti dei proprietari di azioni". Se si opta per la seconda formula, è normale che un dirigente assunto per suddividere un'impresa in dieci pezzi, di cui sei da buttare, sia cento volte meglio pagato del classico presidente-direttore generale, troppo legato a una paternalistica logica industriale di lungo termine. Se la politica del capitale concede la preminenza a chi lo fa circolare più rapidamente rispetto a chi produce valore, la scala delle graduatorie si sposta dalla borghesia produttiva a una borghesia degli investimenti finanziari. Non si può sostenere al tempo stesso che "la massima qualificazione è determinata dai diplomi" e che "ciò che conta veramente è la capacità di far funzionare il teatro mediatico accattivandosi le masse". Se si opta per il secondo messaggio, diventa normale che il presentatore televisivo sia pagato molto più di un docente universitario che egli fa apparire o scomparire dal teleschermo ogni volta che serve. La seconda ragione è economica. Quando la circolazione prevale sulla produzione e la crescita netta diminuisce, ogni surriscaldamento si paga con un tracollo. La nuova iperborghesia non si stabilisce su un'eccedenza durevole creata dall'economia di scala (la centralizzazione mondiale), bensì sulla spartizione di una torta il cui volume non è cresciuto di molto, e si impossessa di redditi già attribuiti ad altre frazioni della borghesia. L'ultima ragione è organizzativa: dovunque viene ad assumere il comando centrale, l'iperborghesia occupa le funzioni di chi l'ha preceduta, ma su scala mondiale (dove fino a quel momento dominava un'oligarchia capitalista senza poteri politici diretti). Ora, come sanno bene i militari, le dimensioni dello stato maggiore sono indipendenti dal numero dei soldati: non si può essere più di qualche migliaio per decidere dei movimenti di un esercito, sia esso di 100.000 uomini o di dieci milioni. Quanto alle funzioni subalterne, continuano ad esistere solo laddove non si dispone di comandi modernissimi, in grado di sottoporre la crescente molteplicità dei teatri operativi a un vertice bene informato, capace di dare simultaneamente miriadi di ordini. E poiché questi sistemi modernissimi abbondano (informatizzazione, collegamenti in rete, management razionale ecc.) non c'è bisogno che lo stato maggiore di un'economia mondiale semplificata disponga di più personale dei vecchi centri locali.
Non solo la vecchia borghesia dirigente non riavrà il suo ruolo, ma anche supponendo che mantenga le cariche attuali, sebbene troppo dispendiose secondo la nuova griglia di valori, conserverà soltanto l'ombra della sua passata potenza. Giganteschi conglomerati di attività varie possono oramai essere diretti da un piccolo numero di capi, e tutti i vecchi gruppi decisionali, anche se cooptati a livelli più elevati, sono svuotati della loro funzione dirigente per divenire centri intermedi incaricati di applicare una politica decisa sempre più in alto. Questo declassamento si applica sia ai quadri esistenti che ai giovani diplomati. Ad esempio, un giovane ingegnere formatosi nelle migliori università francesi ed estere ci racconta le sue vicissitudini alla Rhône-Poulenc, dopo la fusione del gruppo con il gigante americano Rorer: "I quadri americani sono sbarcati l'indomani della fusione. All'inizio non erano troppo visibili. Ora però è chiaro: vogliono disporre dei posti strategici, anche ai livelli intermedi. Quanto a me, non ho certo più le stesse prospettive di carriera di qualche anno fa".
Sarebbe ingenuo credere che la sostituzione di élites tecno-burocratiche nazionali o federali con un'élite della rete mondiale riguardi soltanto le società estroverse (Stati Uniti) o caotiche (ex paesi comunisti). Lo stesso processo riguarda anche l'Europa, dove peraltro l'iperborghesia punta alla destituzione preventiva della borghesia funzionale di un futuro stato comunitario. Dovunque ci si può aspettare lo stesso risultato: riduzione delle remunerazioni e delle responsabilità delle categorie del vecchio inquadramento, che vedono le loro responsabilità mortificate e destabilizzate. La loro lealtà è minata, tanto che divengono vulnerabili alla corruzione. L'iperborghesia "nidifica" presso le borghesie nazionali, ma si affretta ad abbandonarle appena può.
Il gioco economico, senza più altre barriere che i filtri predisposti dalle direzioni delle imprese, utilizza più o meno selettivamente varie forme di socializzazione nazionale. Attraverso queste "branchie" si costituisce un villaggio multiculturale elitario pressoché invisibile, tanto le sue reti coloniali si fondono nello scenario ambientale. Sorgono così all'interno del tessuto tradizionale mille lussuose enclave, in realtà sempre più distaccate dalle sorti dei ceti medi.
Una cultura predatoria
In apparenza, i "gentili nuovi venuti nel quartiere" sono meno razzisti, più democratici, più aperti e informali delle vecchie élites impettite e spocchiose, arroccate a Cambridge o nel XVI arrondissement, che viaggiavano se mai esclusivamente di club in club e si sposavano solo tra pari grado, con tanto di attestati genealogici. Ma basta una crisi di finanziamento del ceto medio ordinario per rendersi conto che c'è stato un giro di boa. Poiché la differenza è protetta senza badare a spese, capita a volte che la società insorga: come quando la corte d'appello della California ha stabilito che le barriere erette attorno al comune di Whitley Heights (Los Angeles) costituivano un "ritorno illegale ai tempi feudali" (sic).
Certo, una parte dell'antica borghesia dirigente sarà cooptata da quella nuova. Il falso nuovo ricco, in realtà rampollo di una buona famiglia rovinata, rimane un personaggio classico delle succes stories. Ma l'adattamento richiesto per entrare a far parte dell'iperborghesia esclude una riconversione maggioritaria delle élites classiche nella nuova élite: il cambiamento di "capitale culturale" è troppo costoso. La capacità acquisita dalle borghesie nazionali di negoziare i loro rapporti con la società non serve più, in un sistema di valori imperniato sul saccheggio veloce.
Certo, sono state ordite alleanze tra patrimoni vecchi e nuovi. Le élites minacciate si sono affrettate a completare con soggiorni a Harvard gli studi politecnici dei loro cari rampolli. Ma stavolta la concorrenza è dura, e si richiede ben altro che una vernice culturale in più. Non basta imparare le tecniche di gestione o il diritto americano. Si tratta di voltare prestissimo le spalle a Goethe, a Molière o al Nô per i rudimenti di una cultura improvvisamente mondializzata.
Il ceto medio nella morsa
Anche in questo caso, nessun segnale di appartenenza, per quanto disperato, può garantire la cooptazione nella nuova classe; e l'agitazione browniana dei quadri delle imprese pubbliche, o dei "noccioli duri" che preparano a proprio vantaggio la liquidazione dei vecchi dinosauri, è praticamente vana. Una volta ristrutturata l'impresa per presentarla, pronta da maritare, agli investitori mondializzati, saranno i primi a cadere vittime dei cambiamenti. E quanto più avranno dato prova di preventivo zelo collaborazionista, tanto più resteranno delusi. I nuovi dirigenti non valutano i loro subordinati dal grado di adesione al dogma liberista né dal loro cattivo inglese internazionale, e neppure dalla docilità durante gli stages multinazionali dove si apprende la governance e l'implacabilità nel licenziare i più deboli; li giudicano in base alla loro cultura profonda, radicata fin dalla più giovane età. Ora, a differenza dai grandi capitalisti le cui nuove conquiste puntavano alla durata e alla trasmissione (i Rotschild, gli Albrecht, i Mulliez, i Livanos, gli Hass, i Walton, i Cargill, gli Agnelli, i Tsai Wan-Lin ecc.) l'iperborghese ha difficoltà a "patrimonializzare" guadagni a volte strabilianti, ma speculativi. Ancorché a capo degli eserciti, non è mai completamente accettato nell'inner circle. Ha ottenuto la stabilizzazione dei suoi redditi ma non ancora la perennità sociale. Così ad esempio i dirigenti di Calpers, il famoso istituto di fondi pensione dei funzionari di California, ben più potenti dei banchieri d'affari, non possiedono patrimoni personali o familiari.
La riconversione delle élites comporta tra l'altro una vera e propria deflazione culturale, commisurata alla semplificazione dei valori del gioco del denaro, esonerato da ogni obbligo verso la società civile. La nuova iperborghesia svaluta innanzitutto la cultura civica. Come osserva Michael Lind, una nuova scuola di storici tende a cancellare le storie nazionali, relativizzate a un punto tale da essere totalmente surclassate dalla religione o dall'economia. Alle affermazioni del filosofo inglese Michael Oakeshott (8), per il quale non esiste una "storia della Francia", Lind replica non senza umorismo che "una cosa chiamata Francia ha lasciato tracce più durevoli di una cosa chiamata Michael Oakeshott". Certo. Ma la revisione della storia per bandire da essa la nazione come "soggetto storico pertinente" è rivelatrice di un movimento di fondo.
Precisamente, questa posizione revisionista non propone nulla in sostituzione della funzione simbolica civilizzante del dibattito nazionale. Nel corso di un'inchiesta, Richard J. Barnet e John Cavanagh, hanno intervistato alcuni dirigenti di gruppi multinazionali che hanno dato prova di ignorare "le conseguenze sociali e politiche delle scelte produttive dei rispettivi gruppi e delle loro iniziative (...) Le responsabilità che sono disposti a riconoscere di avere sono globali, ma risentono al tempo stesso di uno spirito campanilistico". Gli autori dell'inchiesta ne hanno tratto la conclusione che "le idee sulle modalità di una transizione verso un ordine post-nazionale, unica alternativa al disordine anarchico e alla disgregazione delle nazioni, hanno scarse probabilità di vedere la luce nelle sale di riunione delle direzioni dei gruppi" (9). Inoltre, l'iperborghesia è anticulturale. E perché? Se il valore supremo è l'azione attraverso capitali capaci di trasformare la ricchezza di interi continenti, l'iperclasse funzionale ricusa ciò che potrebbe frenare il cambiamento del valore attribuito ai loro oggetti dagli umani. È iconoclasta, poiché la finalità del denaro è l'evaporazione borsistica degli oggetti, manifestazione ultima della capacità di provocare l'altrui rovina.
Individualmente, l'eroe del gioco d'azzardo finanziario deve manifestare un'intelligenza fuori dal comune, col retroterra di un'elevata cultura (George Soros, Vincent Bolloré ecc.). Ma come collettivo, l'iperborghesia si trincera nel proprio odio verso gli "intellettuali altezzosi" (che la costringono a riflettere sulla sua distruttività, mentre ciò che vuole è solo la fiammata) e nel suo rifiuto delle "spese eccessive" dell'Unesco o della Commissione europea (che la obbligano alla socializzazione, mentre vuole soltanto isolarsi). Coltiva invece un'attrazione smodata per le forme ostentate dell'unico valore del dominio: avere tutto più grande del vicino, più visibile, meglio protetto, infinitamente più costoso ecc.. La finta villa romana, la rosa di piscine giganti, gli sconfinati prati all'inglese, la sinfonia dei veicoli multicolori non sono appannaggio di un Citizen Kane degli anni '30; sono invece il segnale di un'iperborghesia che prolifera e si riconosce come tale da un capo all'altro del mondo. E contemporaneamente al nauseante cattivo gusto degli accumulatori si è imposto il furore ludico con cui si aboliscono le preziose conquiste dell'otium, questa libertà politica e colta di ogni classe dirigente civilizzata (10).
Il ceto medio, socializzato dall'università, si ritrova incastrato nella morsa tra due inculture che si affermano come una stessa "nuova cultura mondiale". Alle classi medio-basse si chiede di scegliere i loro valori (berretti, magliette, scarpe, nomi dei personaggi dei serial) tra quelli dei "vincitori del mondo", per meglio irridere alle rispettive élites locali; e queste subiscono per di più lo spettacolo umiliante dei potenti e opulenti che inseguono ideali vuoti di qualsiasi esperienza che non sia la circolante ostentazione.
I maxischermi di Bill Gates
La vecchia borghesia colta, che cerca riparo associandosi al ceto medio generato grazie a delicati meccanismi statali, è ormai ridotta a resistere alle riforme, invariabilmente distruttive, delle varie sinistre e destre, accanite nello strattonare cultura, ricerca e università nell'intento di spostarne la sostanza verso l'iperborghesia, giovane cuculo del quale si dovrebbe soddisfare l'insaziabile appetito.
Il rifiuto di trasferire le strutture culturali e civiche verso orizzonti improbabili non è soltanto resistenza del passato, bensì espressione di un'esperienza: solo un sistema di riferimenti culturali può impedire ai padroni che il potere ha reso dementi di abbandonarsi al saccheggio, a dimostrazione della loro onnipotenza. E questo sistema - che ordina i processi innovativi, addolcisce le scelte di consumo e le socializza, determina forme di risparmio meno irrazionali del puro e semplice gioco (investimenti in oggetti d'arte o mecenatismo, ad esempio) - può provenire soltanto da una "repubblica delle opinioni", che per definizione sfugge al mercato. Tra l'estinzione dei valori (un esempio: le grandi opere proiettate su maxischermi nella vasta casa di Bill Gates a Seattle, con il risultato di abolirle nell'anonimato digitale) e una forma civilizzata, c'è posto per un commento discusso e quindi raccolto dall'istituzione universitaria. Ora, quest'ultima esiste esclusivamente in relazione al desiderio di cultura delle popolazioni, non a cambiamenti di valori imposti dai padroni della forma denaro.
"Mondialisti" contro "localisti"
Nell'attesa di un riconoscimento di istituzioni culturali mondiali, esiste dunque un deficit di civiltà della nuova classe; la sua "ipercrassa" incultura nelle questioni civili che vanno al di là dei rapporti di forza le consente di rimanere mostruosamente inconsapevole delle proprie pulsioni di dominio, selvaggiamente coltivata a rischio di ogni futuro accettabile.
Tutto è dunque selvaggio nel paese dell'iperclasse? La nuova superborghesia si pretende umanista, universalista e multirazziale. Ostenta buoni sentimenti e un'estrema generosità verso l'esotismo minacciato, dagli yanomani ai pigmei. Ha la pretesa di aver superato la questione etnica. Il tema del multiculturalsmo integrale (che riconcilia indiani, ispanici, asiatici e neri chiedendo scusa per lo schiavismo e il genocidio) si ritrova promosso allo stato di ideologia ufficiale, trasfigurato a un livello sovranazionale, contrapposto a stati nazione denigrati per i loro valori retrogradi se non razzisti.
Ma questo pluralismo si limita ad autorizzare qualche matrimonio misto molto pubblicizzato, o a organizzare un superficiale incrociarsi di incontri ben ordinati (club, feste aziendali ecc.), mentre al centro delle reti della superborghesia si trovano comunque i bianchi. I quali traggono maggiori benefici dei membri neri o ispanici del ceto medio dalla buona coscienza di un multiculturalismo che non li costringe a modificare le loro pratiche di discreta apartheid. L'endogamia persistente delle élites bianche che controllano buona parte della ricchezza ha radici nella pratica ancestrale di un nomadismo che sovrasta le società locali, e le differenzia dalle élites sudamericane, più aperte e più inserite.
Endogamia e innalzamento allo status di "classe federale", e poi internazionale, hanno sempre giocato insieme in questa tradizione, che ha permesso alla superclasse di non scomparire, e di occupare lo spazio dell'ex impero britannico circumplanetario, di cui ha ereditato una bivalenza: "pensare liberale" come condizione per "vivere a destra".
Dal multiculturalismo ecumenico si passa al sostegno ambiguo dei particolarismi. Non che l'iperborghesia sia settaria, ma "nativismi" e fondamentalismi le consentono di suffragare il suo rifiuto delle integrazioni nazionali che implicano una regolazione civica dei suoi diritti a investire. Anche qui, bivalenza di fatto: si aborriscono i Christian Reconstructionists (destra religiosa americana) o il Fronte nazionale di Le Pen, ma i successi delle loro rivendicazioni di scuole etniche e confessionali aiutano la superclasse a sciogliere le lealtà civiche trasversali degli stati che la contrastano. La divisione elettorale degli Stati Uniti tra battisti, episcopalisti e cattolici, la riaffermazione delle contrapposizioni culturali tra il sud e il nord della Germania, i regionalismi trionfanti in Spagna e in Italia non possono che rallegrare l'iperborghesia per il danno che questi fenomeni recano all'unità statale, nazionale o federale.
Peraltro, la sua indulgenza nei riguardi delle mentalità settarie rinvia a una delle fonti del suo proprio funzionamento: grazie a Max Weber, sappiamo che le Chiese al limite della setta consentono di plasmare eccellenti profili di venditori, eticamente affidabili, moralmente controllabili, lavoratori accaniti. Michael Lind ha dunque ragione quando afferma che una rovinosa alleanza tra multiculturalisti e "autoctonisti" divide in frammenti subculturali ciò che rimane delle identità comuni.
Il multiculturalismo mondialista dell'iperborghesia nasconde inoltre una forma di disprezzo di nuovo genere su cui si appoggia per darsi slancio: quello dei "mondialisti" verso i "localisti", soprattutto abitanti dei Sud; ai quali si avrebbe quindi il diritto di sottrarre siti paradisiaci di valore globale. A questo titolo, l'acquisto di terreni in Amazzonia da parte di associazioni di ecologisti nordamericani ha molto in comune con la privatizzazione di un lago argentino da parte dei divi "democratici" di Hollywood, o con la chiusura di immense zone forestali in Castiglia, nella Sologne o nel Tarn, a beneficio di associazioni di caccia o di pesca che organizzano le attività ricreative di simpatici pensionati.
Buoni sentimenti o democrazia?
Infine, come specchio di se stessa, l'iperborghesia secerne una nuova sottoclasse, anch'essa tagliata fuori dalle sicurezze sociali, ma questa volta "verso il basso", che procede dovunque da una manodopera migrante più che immigrata, e viene in parte ingaggiata al servizio privato dell'iperborghesia. Così, anche quando la percentuale di immigrati clandestini è bassa in proporzione alla popolazione di un paese come gli Stati Uniti, l'economia che essi vengono a sostenere è soprattutto domestica e clientelare. Nell'iperborghesia, fa parte del bon ton avere in casa famiglie di filippini, mentre i rapporti di prossimità (necessariamente più negoziati, e dunque più egualitari) ispirano ancora le borghesie classiche. L'iperborghesia è affascinata dal globale, che aggiunge al mondialismo classico dei suoi predecessori un mezzo istantaneo per controllare l'insieme degli scambi umani. Ma nel tessere questi nuovi rapporti simbolici, agli alti come ai bassi livelli, essa si mostra incapace di vedere che il qui ed ora, il corporeo, il vicinato, sono reali quanto il virtuale on line. E non percepisce l'indifferenza del reale nei confronti delle inquietudini del potere, catturata com'è dalla passione del "senso" (averne o non averne, essere al centro o alla periferia, essere innalzato o abbassato, ecc.).
Non si può dunque chiedere all'iperborghesia di ammettere il lato positivo delle vecchie strutture protettrici delle società che essa si accanisce a smantellare. Tuttavia, non può sbarazzarsi della cultura che costruisce uno stile di consumi legittimo; e neppure può trascurare la cultura politica, l'unica in grado di permetterle di sopravvivere al caos dal quale trae godimento. Tra due obiettivi complementari e contraddittori - trascrivere il dominio sociale in fenomeno mondiale e sussistere come nuova élite - l'iperborghesia dovrà costruire un compromesso, o perire nei rigurgiti di conflitti armati incontrollabili.
I problemi politici dell'iperborghesia possono essere ricondotti a uno solo: colmare il vuoto di istituzioni che potrebbero tenere a freno, con il suo accordo, le sue proprie tendenze suicide. In questo senso, l'universalismo democratico è una prospettiva che passa per la costruzione di istanze mondiali a partire dalle attuali fondazioni internazionali. Una forma efficace di resistenza delle borghesie civilizzate e dei ceti medi colti potrebbe consistere nell'esigere che si sospendano le operazioni di mortificazione delle strutture culturali (indipendenza economica, solidarietà sociale, ricerca, istruzione), come premessa alla formazione di strutture paneuropee o mondiali fondate sul rispetto della diversità delle lingue, delle società e delle culture. Intorno a un obiettivo come questo, l'iperborghesia può negoziare il suo posto futuro con le altre componenti del mondo che contribuisce a unificare. Per il meglio o per il peggio.
(1) Clément Rosset, Le réel et son double, Minuit, Parigi, 1976.
(2) Ringrazio il prof. Gilles Gagné, dell'università di Laval nel Québec, e Hélène Y. Meynaud, per le conversazioni senza le quali questo articolo non sarebbe stato scritto. Si leggano inoltre gli appassionanti lavori di Michel e Monique Pinçon sulla grande borghesia francese, e quelli di Michel Bauer sui circoli dirigenti. Le basi teoriche della nostra posizione sono stabilite con riferimento a due autori citati nel seguito: Michael Lind e Jean-Claude Milner.
(3) Jean-Claude Milner, Le salaire de l'idéal, Seuil, Parigi, 1998.
(4) Michael Lind, The Next American Nation, the New Nationalism and the Fourth American Revolution, Free Press Paperbacks, Simon and Schuster, New York, 1995.
(5) Jacques Attali, Dictionnaire du XXIe Siècle, Fayard, Parigi, 1998.
(6) Le Nouvel Economiste, 21 agosto 1997.
(7) Gilles Martinet, "Marx et les bourgeoisies imprévues", Le Monde, 15 maggio 1998.
(8) Michael Oakeshott, On History and Other Essays, Oxford University Press, Oxford, 1983.
(9) Richard Barnet e John Cavanagh, Global Dreams, Imperial Corporations and the New World Order, Simon and Schuster, New York, 1994, pp. 18- 21.
(10) Per una teoria dell'otium, necessaria al di là della contrapposizione lavoro-tempo libero, leggere Jean- Claude Milner, op. cit